Mobbing, una storia esemplare, tanto da poter dire: ecco la definizione di mobbing. Siamo nel 2002 e arriva un nuovo direttore e per la sfortunata protagonista di questa vicenda cominciano i guai. Subisce infatti il collocamento in una stanza di lavoro di passaggio, continue lamentele nei suoi confronti, ingiustificati rimproveri, minacce e offese. Poi il direttore impone alla lavoratrice di riferire ogni proprio movimento, anche per andare in bagno. Dopo un paio d’anni la priva di strumenti di lavoro quali il computer e la stampante. I colleghi non sanno più cosa farle fare, salve mansioni residue ed inferiori alla qualifica di appartenenza. Esasperata da tale situazione lavorativa, nel 2008 si dimette e, poi, fa causa al datore di lavoro per mobbing e demansionamento.

La vicenda giudiziaria

Il Tribunale di Firenze respinge la sua domanda, ma la signora non si dà per vinta ed impugna la sentenza ricorrendo in appello. E la Corte d’Appello le dà ragione. La Corte valuta con attenzione le dichiarazioni dei testimoni. Questi confermano infatti che “L’atteggiamento ostile … si concretizzava in uno stretto monitoraggio dei movimenti della ricorrente all’interno dell’ufficio, ad esempio se rispondeva al telefono o si alzava per andare in un altro locale”. Ancora, ricordano che “la ricorrente doveva relazionare giornalmente su quello che faceva” compilando moduli che venivano chiesti solo a lei. Infatti, dichiara un testimone, “non mi risulta che questa richiesta di rendicontazione giornaliera del lavoro sia stata chiesta a nessun altro”. Allo stesso modo, un teste conferma la privazione di strumenti di lavoro essenziali: “per un periodo la ricorrente rimase senza computer e stampante. Che io sappia non ci fu una giustificazione ufficiale di questo. Il computer e la stampante erano necessari per svolgere il lavoro“.

Le ragioni della decisione

I fatti si susseguono per anni e, messi tutti in fila, per il giudice dimostrano che la dipendente “nel periodo in questione, sia stata oggetto di un comportamento vessatorio posto in essere da parte del direttore dell’Ufficio ove lavorava”. Questo comportamento illegittimo, come detto, è consistito nella collocazione della lavoratrice in una stanza di passaggio, mai utilizzata prima dai colleghi. In aggiunta, l’imposizione di un rendiconto giornaliero del tutto non dovuto e mortificante, la privazione degli strumenti necessari allo svolgimento delle proprie mansioni e la sostanziale dequalificazione.

Si arriva così alla definizione di “mobbing”, con cui si indica una condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti del suo dipendente. Condotta che consiste in una serie ripetuta di ingiustificati soprusi diretti ad isolare ed a screditare il dipendente nell’ambiente di lavoro e preordinati alla sua estromissione dallo stesso. Una condotta tale da comportare per il lavoratore gravi menomazioni sia in relazione alla sua capacità lavorativa che alla sua integrità fisica. È questo ciò che è accaduto? Il giudice non ha dubbi condanna il datore di lavoro a pagare il risarcimento dei danni. (Corte Appello Firenze, sez. lavoro, n. 393/2019)