Offendere l’onore o la reputazione di qualcuno è una condotta che, dal punto di vista penale, porta ad integrare i reati di ingiuria o diffamazione e, dal punto di vista civile, obbliga l’autore dell’offesa a risarcire il danno causato al destinatario della stessa.
Nella stragrande maggioranza dei casi, ad integrare l’offesa ci sono le parole, scritte oppure pronunciate, ma, considerata la varietà dei mezzi e delle forme comunicative che abbiamo oggi a disposizione, ci si potrebbe chiedere se, ad esempio, si possa parlare di “offesa” anche rispetto all’utilizzo di una emoji. In altre parole: utilizzare una “icona” che possa essere letta in chiave offensiva se riferita ad un soggetto, può essere equivalente ad un insulto?
Il caso recentemente deciso dal Tribunale Civile di Verona (decreto dd. 27.01.2020) riguarda proprio questo argomento. La vicenda nasce su Facebook quando, nell’ambito di una polemica politica tra due esponenti locali, uno dei due scrive un post contenente pesanti critiche nei confronti dell’altro e fa terminare questo post con il ben noto emoji che raffigura le feci.
Sentitosi offeso, il destinatario del post si rivolge al Tribunale chiedendo di ordinare la cancellazione del post, considerato offensivo; il Tribunale ha rilevato che il testo contenuto, pur trattandosi di una critica pungente, non poteva dirsi offensivo, ma ha altresì ritenuto gratuito – e pertanto non giustificabile e quindi offensivo – l’uso di quel particolare emoji che, in quel contesto, era inequivocabilmente riferito al destinatario del post. Da qui, l’ordine di rimozione dell’emoji dal post, con la previsione che, per ogni giorno di permanenza online dell’emoji, l’autore del post dovrà versare 150 euro.
Insomma, se volete usare delle emoji nei post, sceglietele con attenzione.
Avv. Andrea MARTINIS
diritto civile (responsabilità civile, assicurazioni, recupero crediti), privacy, diritto penale