Il Giudice per le indagini preliminari di Milano (sentenza 30 dicembre 2020) ha avuto modo di pronunciarsi su un tema caldissimo, ovvero quello delle false dichiarazioni rese al Pubblico Ufficiale durante un controllo sugli spostamenti in regime di lockdown. Come ormai noto a tutti, negli ultimi mesi sono stati periodicamente imposti dei divieti agli spostamenti, che sono stati consentiti solo se rientranti in una serie di categorie (motivi di lavoro, situazioni di urgenza, ecc.; se, quindi, si viene fermati per un controllo, bisogna dichiarare la ragione dello spostamento, autocertificando così la situazione. Ma quali sono le conseguenze in caso di dichiarazioni false?

Se l’è chiesto, appunto, il GIP di Milano, che si è occupato del caso di una persona che, in pieno lockdown primaverile, era stata fermata mentre transitava per strada a bordo di un autocarro e aveva giustificato lo spostamento dicendo che stava andando ad effettuare una riparazione (si trattava di un tecnico caldaista). Alcuni rapidi accertamenti avevano permesso di verificare che il caldaista non stava affatto andando a lavorare. Da qui l’imputazione dello stesso a titolo di falsità ideologica (art. 483 c.p.).

Il GIP, però, ha deciso per l’assoluzione dell’imputato. A convincere in tal senso il Giudice è la formulazione della norma penale, che punisce chi, in un atto pubblico, attesta falsamente “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”. La dichiarazione resa dall’imputato (“sto andando ad effettuare una riparazione”), ragiona il Giudice, non è un “fatto” che si vorrebbe essere “vero” in quanto accaduto, ma una intenzione: il caldaista ha infatti dichiarato che stava andando al lavoro. Nell’ottica dell’autocertificazione, è possibile rendere una serie di dichiarazioni concernenti fatti o status che possono essere provati, in quanto accaduti in un certo modo: se queste dichiarazioni sono difformi rispetto a quanto realmente successo, scatta il reato di falso. Ma, nel caso specifico, il caldaista non ha fornito una dichiarazione relativa ad un fatto trascorso, limitandosi a dire agli agenti che cosa intendeva fare.

Questo non significa che chi viene chiamato a giustificare lo spostamento possa dire quello che crede, impunemente: l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto punito dall’art. 483 c.p.; per contro, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.

Il caldaista, quindi, non è stato condannato in sede penale. Resta comunque ferma la possibilità di imputargli un illecito amministrativo.

(avv. Andrea Martinis)