Il blocco del proprio profilo per violazione degli standard della Community Facebook è una situazione sempre più frequente tra gli utenti. Negli ultimi due anni, i casi sono soprattutto quelli di persone che hanno postato articoli, link o comunque contenuti inerenti al tema Covid-19 e vaccini. Persone che, in particolare, hanno postato informazioni contrastanti con le indicazioni dell’OMS. Costoro hanno visto arrivare dapprima un avvertimento, magari con annessa rimozione del post incriminato, per poi giungere al ban, di durata variabile e tendenzialmente “a salire”. Facebook, insomma, attua una politica di sanzioni che aumentano di intensità in caso di recidiva.

Che fare? L’utente che vede rimosso il proprio post o che si trova costretto a subire un ban (di qualche giorno, oppure addirittura di un mese) si sente escluso. È frequente, infatti, che si ritenga di aver subito una violazione del proprio diritto alla libera manifestazione del pensiero. Diritto, questo, protetto dalla Costituzione. Non secondariamente, ci si chiede se Facebook possa effettivamente operare questo ban. Molti utenti, infatti, lamentano che dietro al blocco per “violazione degli standard della Community Facebook” ci sia una valutazione eccessivamente arbitraria.

Il caso pratico: utente admin di un gruppo Facebook

Un caso di questo tipo è finito davanti al Tribunale di Varese, che si è pronunciato con ordinanza n. 2572/2021. La vicenda è quella di una persona che, oltre ad un profilo Facebook, è anche admin di un gruppo. La piattaforma ha sospeso l’account dapprima per 24 ore, poi per tre giorni, quindi per dieci ed infine per un mese. Per l’utente è così diventato impossibile non solo usare il proprio profilo, ma anche gestire il gruppo. All’origine del ban, alcuni post in cui i vaccini contro il Covid-19 venivano espressamente etichettati come pericolosi e letali.

L’utente ha quindi deciso di rivolgersi al Tribunale, nelle forme del ricorso d’urgenza, chiedendo il ripristino dell’account e dei post rimossi, nonché il risarcimento del danno sofferto. A suo modo di vedere, non solo si è verificata una lesione del diritto costituzionale alla libertà di manifestazione del pensiero, ma anche una violazione dei termini contrattuali. Secondo il ricorrente, infatti, la decisione di Facebook è contraria agli impegni assunti dalla piattaforma al momento dell’iscrizione. Non solo: le condizioni contrattuali predisposte da Facebook integrerebbero gli estremi delle clausole vessatorie.

La decisione: ha ragione Facebook

Il Tribunale ha ascoltato gli argomenti di entrambe le parti e ha deciso di dare ragione a Facebook. Il Tribunale ha rilevato che, effettivamente, con l’iscrizione al social si conclude un contratto a prestazioni corrispettive. L’utente ottiene un servizio, mentre Facebook ottiene dati personali, da utilizzare o rivendere. Effettivamente, ci sono delle condizioni generali a cui si aderisce, un modulo cioè predisposto unilateralmente dalla piattaforma. Il Tribunale ha quindi verificato se gli standard della Community determinino uno squilibrio contrattuale tra soggetto imprenditoriale e consumatore.

La risposta è negativa. Ad avviso del Tribunale, queste condizioni non sono vessatorie. Non in astratto, in quanto riconducibili alla “ordinaria regolamentazione contrattuale”. Esse, infatti, servono ad assicurare una corretta fruizione del servizio da parte degli utenti. Non lo sono in concreto, perché le limitazioni imposte alla manifestazione del pensiero si giustificano con la tutela di altri diritti costituzionalmente rilevanti. In particolare, si tratta dei valori di autenticità, sicurezza, privacy, dignità personale nonché la tutela della salute pubblica.