Ha suscitato notevole impatto mediatico una recente ordinanza della Corte di cassazione (ordinanza n. 19328/2020) relativa ad un caso di illecito trattamento di dati personali; nella fattispecie, si trattava di addebiti disciplinari mossi ad un dipendente e che – secondo la tesi di questi – il datore di lavoro ha reso conoscibili a soggetti non autorizzati ad entrare in contatto con simili informazioni. L’ordinanza è particolarmente articolata e prende in considerazione diversi aspetti, ma – volendo cercare una sintesi – la sua lettura diventa interessante perché, pur non accogliendo completamente il punto di vista del dipendente (il quale riteneva che la violazione alla privacy avesse avuto un ambito più esteso), ha comunque riconosciuto il suo diritto al risarcimento dei danni morali.

Andiamo con ordine. La violazione alla privacy è stata accertata dalla Cassazione – che ha sotto questo aspetto avallato il giudizio del Giudice di merito – in quanto vi è stata una indebita diffusione di dati personali (segnatamente, giudizi e informazioni relativi alla condotta professionale) in una sede (riunione sindacale) inadeguata; a causa di ciò, i dati personali sono stati resi conoscibili al di fuori della stretta cerchia di persone che – nella gerarchia aziendale – avrebbe potuto gestirli legittimamente. In quella riunione sindacale, quindi, è stata diffusa la notizia della rimozione del dipendente dalle sue funzioni, in aperta contrarietà alle norme che disciplinano il trattamento dei dati personali, posto che i partecipanti alla riunione (o quantomeno, non tutti) avrebbero avuto la legittimità a conoscere le informazioni che, invece, sono state rivelate. Il senso della normativa a tutela della privacy, ovviamente, è proprio quello di contenere la diffusione delle informazioni entro i limiti in cui essa si renda necessaria.

Da qui il pregiudizio per il diretto interessato. Per potersi parlare di diritto al risarcimento del danno, però, la Corte specifica che il pregiudizio deve essere allegato e provato da parte del richiedente; serve, in altre parole, dimostrare la gravità della lesione e la serietà del danno. Ad avviso della Corte, però, questa prova può anche essere desunta da una massima di esperienza, secondo cui dalla diffusione di valutazione negative relative al proprio operato professionale normalmente scaturisce sofferenza morale. Questo significa che, una volta dimostrata l’indebita diffusione di informazioni relative alla condotta professionale, si può ritenere che il diretto interessato subisca un danno. Quanto all’ammontare di questo danno, andranno prese in considerazione le circostanze concrete, come le conseguenze effettivamente subite dal danneggiato, oppure l’estensione della diffusione dei dati personali indebitamente trattati. Ancora una volta, quindi, si rimarca l’esigenza di dare conto dei fatti in modo compiuto, prima di poter arrivare ad una sentenza di condanna al risarcimento del danno.

(avv. Andrea Martinis)