La pubblicazione e la conseguente diffusione di fake news può rappresentare un pregiudizio per la persona (o il soggetto giuridico: si potrebbe infatti pensare a notizie riguardanti un’azienda) indicata, in quanto essa viene ad essere associata a fatti non rispondenti a verità. Quando queste “false notizie” sono tali da arrecare un offesa al soggetto rappresentato, siamo in presenza degli estremi costitutivi del delitto di diffamazione a mezzo stampa, posto che c’è una comunicazione, rivolta a più persone, con cui vengono lesi l’onore e la reputazione dell’interessato.

Se, però, l’offesa in sé è pacifica, questo non significa che da essa derivi automaticamente il diritto al risarcimento del danno. In altri termini: provata la falsità delle notizie e quindi il pregiudizio all’onore/reputazione, chi reclama di aver subito un danno per effetto delle fake news deve dimostrare in concreto in cosa consista tale danno. Il principio è ormai consolidato a livello giurisprudenziale ed è infatti stato recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 10596/2020, con cui, appunto, i Giudici di legittimità hanno spiegato che il danno all’onore e alla reputazione “non è in re ipsa”, poiché il danno si identifica non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione.

Per provare questo danno si può fare ricorso anche a presunzioni ed in tal caso assumono rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione delle notizie, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima. Questi parametri possono inoltre essere utilizzati per determinare l’entità del danno non patrimoniale, che di per sé non è semplice da quantificare; assieme ad essi può altresì venire in rilievo, sempre secondo la Cassazione, anche il comportamento degli autori dell’offesa successivamente ai fatti (ad esempio: essersi o meno attivati per rettificare la notizia, o per limitarne la circolazione).

(avv. Andrea Martinis)