Dal Tribunale di Torino arriva una sentenza (datata 20 aprile 2020) che tratta il caso di un video di protesta diventato in breve tempo virale e che ha portato a conseguenze significative per il “bersaglio” ivi indicato. Fake news, diffamazione, “macchina del fango” avviata sui social, risarcimento del danno… i punti di interesse sono molteplici.

La vicenda, ormai risalente al dicembre 2017, riguarda il Museo Egizio di Torino, che all’epoca aveva lanciato l’iniziativa “fortunato chi parla arabo”, volta ad offrire ai cittadini di lingua araba la possibilità di visitare il museo con la formula del 2×1 (ovvero due persone al prezzo di una). L’iniziativa era diventata oggetto di un video di protesta pubblicato sul proprio account Facebook da un esponente politico.

Il video riprendeva una conversazione telefonica tra costui e un operatore del Museo Egizio, nella quale si apprendeva degli sconti riservati agli arabi e di come il Museo fruisse di finanziamenti statali; il video recava l’invito, rivolto ai visualizzatori, a “condividere questa vergogna” e a “far sentire” il proprio pensiero in merito. Il video era subito diventato virale e aveva spinto molti utenti del social network a contattare il Museo Egizio, che nei giorni seguenti si era trovato alle prese con centinaia di telefonate di protesta o addirittura di insulti.

Il Museo Egizio si è quindi rivolto al Tribunale, chiedendo la rimozione del video e il risarcimento dei danni arrecati da questa forma di pubblicità negativa. Si è pertanto reso indispensabile operare un bilanciamento tra il diritto di critica da parte dell’autore del video e il diritto all’onore e alla reputazione proprio dell’ente museale. Al termine di una istruttoria che ha comportato anche una consulenza tecnica sul video, il Tribunale ha accertato anzitutto che la telefonata ripresa nel filmato non era autentica, ma si trattava di un montaggio: in altre parole, l’esponente politico non aveva affatto parlato con un dipendente del Museo, ma aveva inscenato la conversazione. Da qui un primo elemento da prendere in considerazione, posto che uno dei limiti del diritto di critica (e, prima ancora, di cronaca) è la veridicità dei fatti. Ulteriore aspetto è che, contrariamente a quanto rappresentato nel filmato, il Museo Egizio non gode di sovvenzioni statali; dettaglio non secondario, visto che il “cuore” della polemica lanciata riguardava proprio la circostanza che un ente alimentato con i soldi dei cittadini italiani facesse sconti ai soli cittadini arabi.

Il Tribunale ha così fatto applicazione degli orientamenti giurisprudenziali in materia di diritto di critica che, sebbene abbia confini più ampi rispetto a quello di cronaca, incontra comunque un limite, in quanto “è pur sempre necessario che il giudizio espresso, anche severo e irriverente, resti ancorato a un dato fattuale da cui il criticante prende spunto, affinché risulti rispettato il requisito della verità, se pur in misura affievolita, e non si configuri la diffamazione”. Da qui, per il Tribunale, la necessità di esaminare la verità oggettiva e la forma dell’esposizione, che deve mantenersi nel solco della civiltà per poter essere legittima.

In considerazione delle risultanze probatorie, il Tribunale ha ritenuto non rispettato il requisito della verità, alla luce della falsità del video e della falsità relativa ai finanziamenti statali percepiti dal Museo. Il Giudice pertanto conclude che “il messaggio principale veicolato nel video […] non corrisponde alla realtà dei fatti”. Quanto ai modi, questi sono stati ritenuti “evidentemente eccessivi”, posto che si erano tradotti in una incitazione “ad offendere” il Museo: sul video, infatti, erano presenti dei banner recanti la scritta a caratteri cubitali “condividiamo questa vergogna” e l’invito a contattare telefonicamente il Museo.

Le telefonate di protesta che effettivamente sono piovute nei giorni successivi sono state poste in diretta connessione con questo filmato e per questo motivo il Tribunale ha accolto la richiesta di risarcimento del danno, equitativamente stimato in 15.000 euro. Il Giudice ha inoltre ordinato la rimozione del video da Facebook, inibendone l’ulteriore diffusione e stabilendo una pena di 500 euro per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’obbligo di rimozione.

(avv. Andrea Martinis)