Non è infrequente leggere notizie relative a banchetti o pranzi conclusi con l’intossicazione alimentare di buona parte dei presenti. In questi casi, a rischiare una sanzione penale è il ristoratore, a cui potrebbe essere addebitato il reato di somministrazione di cibi in cattivo stato di conservazione (art. 5 legge 283/1962). Ma quali devono essere gli accertamenti necessari per giungere ad una condanna in tal senso?

Si potrebbe pensare che, ai fini di una declaratoria di responsabilità, si rendano necessarie analisi in laboratorio per quanto riguarda il cibo servito, ma non è così. Come ha chiarito recentemente la Corte di cassazione (sentenza 27541 del 2020), infatti, quando la legge parla di “cattivo stato di conservazione” fa riferimento alle comuni regole di esperienza che governano la gestione di una cucina. Ecco allora che non si rendono necessarie specifiche analisi quando ci si trovi in ipotesi di inosservanza delle cautele igieniche e delle tecniche necessarie per assicurare che i cibi mantengano le condizioni adeguate per essere poi serviti. Nel caso regolato dal Giudice di legittimità, si era accertato che una trentina di persone, che avevano tutte partecipato ad un ricevimento, avevano riscontrato sintomi di salmonellosi e quindi erano rimaste vittime di un batterio che si trasmette proprio attraverso l’ingestione di cibi o bevande contaminati. La specificità dei sintomi e la circostanza che tutte queste persone avessero ingerito gli stessi alimenti (in particolare uno) è sufficiente perché si possa parlare di un accertamento adeguato.

Né rileva, precisa inoltre la Corte, la consapevolezza da parte del ristoratore circa il cattivo stato di conservazione. Questo in quanto il reato viene punito a titolo di colpa, per cui è sufficiente che al ristoratore sia possibile addebitare una negligenza nella verifica circa la conformità del cibo o nel modo in cui ha provveduto alla sua conservazione.

(avv. Andrea Martinis)