Quando un battibecco calcistico esce dal bordo campo per approdare ai social, l’autore delle offese rischia di essere condannato per diffamazione. È questo l’esito del giudizio che si è concluso davanti alla Corte di cassazione, nella sentenza n. 36026 del 16.12.2020: il caso è quello di un acceso scambio di battute che, partito durante una partita di calcio, era poi finito online. Uno dei due litiganti, infatti, il giorno dopo la partita aveva scritto un post in cui offendeva il suo avversario; da qui la querela per diffamazione aggravata dall’uso del mezzo social.
La tesi difensiva, nei vari gradi di giudizio, è stata respinta. L’autore del post sosteneva infatti che vi fosse incertezza sull’origine di esso; al contrario, i Giudici hanno ritenuto che il post fosse attribuibile al soggetto che, con userid e password, poteva effettivamente accedere a quel profilo. La difesa sosteneva inoltre che non poteva dirsi con certezza che il destinatario delle offese fosse proprio il querelante, visto che il post conteneva alcuni errori di individuazione (si diceva infatti che l’offeso abitasse in un paese vicino a quello di residenza effettiva, o che avesse un certo numero di figli); i Giudici hanno invece osservato che gli ulteriori elementi del post consentivano di individuare in modo univoco il destinatario delle offese, essendo irrilevanti gli errori, non fondamentali per identificare il bersaglio.
Infine, non è stata accolta la tesi della provocazione. Come noto, infatti, per il reato di diffamazione il codice penale prevede la non punibilità di chi ha agito in “stato d’ira” causato dal “fatto ingiusto altrui”. La difesa sosteneva infatti che il post fosse scaturito proprio dal litigio intercorso tra i due durante la partita e che l’autore fosse ancora adirato per le offese ricevute a bordo campo. Non sono però stati di questo avviso i Giudici, che hanno separato i due momenti: loggarsi sui social il giorno dopo e scrivere, “a freddo”, degli insulti, pare del resto un momento separato, staccato quindi dallo “stato d’ira”. Né l’esame dei testimoni era stato in grado di evidenziare un “fatto ingiusto”, nel senso cioè che il litigio a bordo campo, per quanto acceso, non era sfociato in vere e proprie offese, tali da giustificare una replica.
Ancora una volta, quindi, uno sfogo senza filtri, pubblicato sul proprio account, è costato una condanna in sede penale.
(avv. Andrea Martinis)
Avv. Andrea MARTINIS
diritto civile (responsabilità civile, assicurazioni, recupero crediti), privacy, diritto penale