L’applicazione delle nuove tecnologie pone dei quesiti di diritto sempre nuovi. È il caso, ad esempio, del sistema utilizzato da una nota azienda di delivery, che ha messo in mano agli algoritmi il procedimento di selezione dei riders: per poter lavorare, infatti, il rider scarica un’app, attraverso la quale si rende disponibile ad effettuare consegne, prenotandosi. La prenotazione è possibile in tre slots, ovvero tre fasce orarie (11, 15 e 17) che vengono aperte ai riders sulla base delle necessità di personale. Chiaramente, i posti disponibili si esauriscono via via nel corso della giornata ed è ovvio che poter accedere al primo slot utile assicura ai riders la certezza di avere un’occasione lavorativa.

Il punto è che l’accesso agli slots viene regolato in base al rating dei riders; vale a dire: chi ha il rating migliore, può accedere già allo slot delle 11, mentre gli altri devono aspettare, rischiando così di perdere opportunità lavorative. E il punteggio che determina il rating come viene calcolato? Con un algoritmo, che funziona sulla base di due indicatori: a) le volte in cui il rider, pur avendo prenotato la sessione, non ha poi partecipato e b) le volte in cui il rider si è reso disponibile per le fasce orarie più “calde” (ovvero il weekend).

Questo sistema, che peraltro l’azienda ha successivamente abbandonato, vorrebbe premiare chi si rende maggiormente disponibile e punire chi, al contrario “tira pacco” e si potrebbe pensare, ragionando astrattamente, che sia ben congeniato. Esso però è stato ritenuto discriminatorio dal Tribunale di Bologna – Sezione Lavoro (ordinanza del 31.12.2020). Il Giudice, in particolare, ha ravvisato la presenza di una discriminazione indiretta, la quale si verifica nel caso in cui venga riservato lo stesso trattamento a soggetti che rivestono posizioni differenti. In questo caso, il trattamento è quello della penalizzazione, a mezzo rating, che però rischia di colpire i riders a prescindere dalla loro propensione a lavorare. È chiaro infatti che il rider che non dà la disponibilità per il weekend, ad esempio, può farlo per motivi diversi dal semplice fatto di “non avere voglia”: perché ha un altro lavoro, perché ha esigenze familiari, per problemi di salute… motivi quindi che prescindono dalla sua condotta lavorativa. Il rating, in questo modo, non va semplicemente a punire i “fannulloni” che se la svignano, ma anche chi, semplicemente, non è disponibile per un motivo legittimo e che non c’entra con l’impegno che ci mette sul lavoro.

Questa è la discriminazione indiretta che il Tribunale ha individuato, condannando l’azienda. Il sistema, che come è detto era stato nel frattempo smantellato, si reggeva su un algoritmo che, come tale, non poteva distinguere tra le giustificazioni dietro all’assenza sul lavoro. Chiaramente, l’algoritmo non è responsabile di una discriminazione, ma chi lo ha programmato non ha tenuto conto delle variabili e dei criteri che ispirano le norme a tutela dei lavoratori.

(avv. Andrea Martinis)