Una recente sentenza del Tribunale civile di Vicenza (1673 del 2020) si è occupata di una tematica che ormai è diventata una costante delle aule giudiziarie italiane, ovvero la diffamazione online. Il caso è quello di una persona che, dopo aver ricevuto una multa, l’ha fotografata e postata su Facebook, offendendo le forze dell’ordine che l’avevano elevata.
Il corpo di polizia destinatario delle offese aveva proposto querela nei confronti dell’autore del post e, mentre il processo penale era ancora in corso, uno degli agenti intervenuti in occasione della multa ha deciso di muoversi autonomamente, avanzando in sede civile una domanda di risarcimento del danno.
Da qui si è giunti ad una sentenza di condanna, pronuncia agevolata dal tenore inequivocabilmente offensivo delle parole usate nel post (era stato scritto che gli agenti facevano uso di alcol ed erano stati definiti “tossici”), così come era indubbio che il post fosse riferibile al convenuto: una perizia informatica commissionata dall’attore, infatti, aveva escluso ogni dubbio in merito. Non da ultimo, la giurisprudenza è ormai costante nel ritenere che le offese veicolate sulla propria pagina Facebook, destinate ad essere lette da una platea di persone, costituiscono diffamazione aggravata e, come tali, obbligano l’autore al risarcimento del danno.
Ma, quindi, dove risiede l’interesse per questa sentenza? Semplice: nella quantificazione del danno. Trattandosi, infatti, di una lesione all’onore e reputazione, siamo in presenza di un danno non patrimoniale e, come tale, individuarne la misura non è un compito immediato. Il giudice in questo caso ha rilevato anzitutto che la portata offensiva dei commenti andava a toccare sia il piano personale che quello professionale; successivamente, ha rimarcato che il mezzo utilizzato (Facebook) si presta a far sì che le parole offensive abbiano una vasta diffusione, incidendo quindi sulla gravità delle conseguenze dannose. Sono quindi state presi in considerazione l’elevato contenuto lesivo e minaccioso delle affermazioni pronunciate dal convenuto, la loro portata diffamatoria e denigratoria, l’assoluta indicazione del destinatario. Si è quindi giunti alla condanna: 15.000 euro. Certi sfoghi si pagano cari.
(avv. Andrea Martinis)
Avv. Andrea MARTINIS
diritto civile (responsabilità civile, assicurazioni, recupero crediti), privacy, diritto penale