Love story con un minorenne: si rischia di finire in galera. Succede in provincia di Alessandria. Una donna di 30 anni perde la testa per un ragazzino. Lei è una educatrice di scuola materna. Ed è la madre della ragazza che lui frequenta. Lui è troppo giovane per acconsentire a rapporti “completi”. Ma lei perde la testa. Lo induce in almeno tre occasioni ad avere un rapporto sessuale.  Poi, lo assilla con continue richieste, lo ricatta minacciandolo di non fargli vedere la figlia. Minaccia di buttarsi nel Po. Lo cerca con insistenza per le vie della città.

I fatti vengono accertati e la donna condannata a un anno e due mesi di reclusione (pena sospesa) per violenza sessuale poiché, in base al Codice Penale, “chiunque, abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica dell’altro, lo costringe a compiere o subire atti sessuali, deve essere punito”. Viene fatta una perizia e il ragazzo risulta essere gravemente immaturo. Ma anche la donna non risulta del tutto “a posto” e impugna la condanna chiedendo di essere assolta.

La difesa della donna: incapacità di intendere e volere

Infatti, si difende la donna, per commettere un reato di violenza sessuale, bisogna volerlo fare. Non è uno di quei reati che puoi commettere per negligenza o distrazione, cioè “per colpa”. Ad esempio, se ti distrai alla guida e provochi un incidente e ferisci qualcuno, commetti un reato di lesioni “colpose”, cioè, non l’hai fatto apposta, ma sei comunque responsabile. Con la violenza sessuale non funziona così: non puoi aver fatto “violenza sessuale” contro qualcuno per distrazione. Devi proprio averlo voluto fare. Cioè, ci deve essere la tua “volontà”. Nel nostro caso, la donna evidenzia che per voler fare qualcosa bisogna essere capaci di intendere e di volere, ma lei non era in sé! E, pertanto, da parte sua non c’era alcuna “volontà” di commettere il reato.

Una perizia psichiatrica sembra avvalorare la sua tesi. La donna sarebbe profondamente immatura, sia sul piano dell’identità personale che sessuale. Inoltre, avrebbe “una personalità istrionica, caratterizzata da forte insicurezza interiore, labilità emotiva e dipendenza dagli altri”. Dunque, non potrebbe aver voluto costringere il ragazzino all’atto sessuale attraverso violenza o minaccia, né potrebbe aver avuto coscienza di aver abusato della propria posizione. L’imputata avrebbe percepito la relazione con la persona offesa come quella tra soggetti alla pari, un fidanzamento vero e proprio, e l’atteggiamento sfrontato del minore avrebbe confuso la donna, che non si sarebbe resa conto che il minore si trovava in uno stato di inferiorità psichica.

Anzi, prosegue la difesa della donna, a essere maturo, dei due, era proprio il ragazzino! Infatti, lui aveva un atteggiamento spavaldo e disinibito e si vantava con gli amici di avere dei rapporti sessuali con una donna più grande. Addirittura, nonostante la giovane età, lui avrebbe avuto per intero il pieno possesso delle proprie capacità e avrebbe prestato validamente il proprio consenso nel corso di un “lucido intervallo”.

E la decisione del Tribunale

La difesa, però, si scontra con la perizia del Tribunale che attribuisce al ragazzino la maturità di un bambino di circa sette anni. Come puoi immaginare, alla donna non è andata tanto bene. La Corte di Cassazione osserva che la signora è una persona “normoinserita”, educatrice di scuola materna, madre della ragazza frequentata dal ragazzino e, pertanto, in grado di capire che il rapporto non era e non poteva essere consensuale. Il ricorso viene pertanto respinto. Con condanna di spese e sanzioni (Corte di Cassazione Penale, sentenza n. 46459/19)