Il tema della cosiddetta “movida” sta animando da anni non solo i mezzi di informazione, ma anche le aule dei tribunali. Nelle città italiane, infatti, ci sono spesso delle zone ad elevata concentrazione di locali e questo comporta che moltissime persone si trovino a rumoreggiare sotto le finestre dei residenti, sempre più esasperati. Se è agevole comprendere le ragioni di chi è in deficit di ore di sonno, risulta altrettanto intuitivo calarsi nei panni di chi, invece, esercita un’attività commerciale e non può farsi carico della maleducazione dei propri clienti.

Con queste premesse, si potrebbe pensare che la problematica rischi di impaludarsi in un dibattito tutto interno alla cittadinanza: residenti da una parte, imprenditori e clienti dall’altra. Una discussione che rischia di non produrre alcun effetto concreto. I commercianti, infatti, si difenderanno dimostrando di aver adottato tutte le precauzioni imposte dalla legge (insonorizzazione, bicchieri di plastica dopo una certa ora, ecc.), mentre sarà chiaramente difficile (per non dire impossibile) individuare dei singoli clienti responsabili per ripetuti comportamenti molesti.

La sentenza del Tribunale di Torino

Una sentenza del Tribunale di Torino (1261/2021), però, segna un deciso cambio di prospettiva. Un gruppo di cittadini, infatti, si è mosso non contro i gestori o contro irrintracciabili clienti, ma contro il Comune. La responsabilità che è stata attribuita all’ente è quella di aver mal impostato la concessione e la successiva gestione delle licenze, andando cioè a creare un “quartiere del divertimento” che, successivamente, non è stato adeguatamente regolato.

Sulla scrivania del giudice, quindi, finiscono tematiche di pianificazione urbanistica e di gestione del territorio. A creare le premesse per questa situazione è stata la liberalizzazione delle licenze concessa dal Comune, che ha portato ad un incremento esponenziale di esercizi commerciali espressamente destinati ad alimentare la nightlife. Non negozi o attività diurne, ma locali, ristoranti e minimarket che funzionano la sera. Nel corso degli anni, l’Arpa locale ha ripetutamente riscontrato il superamento dei limiti acustici fissati nella classificazione cittadina. Per contro, il Comune, pur essendo al corrente della situazione, si è limitato ad adottare alcuni provvedimenti contenitivi o repressivi: divieto di somministrare alcolici dopo una certa ora, anticipo del servizio di pulizia strade ecc, controlli ad opera della Polizia locale, sanzioni agli esercenti, ecc.

La domanda: risarcimento del danno e misure concrete

Nessun dubbio che la divisione del territorio comunale in zone e l’assegnazione ad ognuna di esse del relativo limite di emissione acustiche sia una prerogativa del Comune. Ed è infatti quello che è avvenuto anche nel caso concreto, dove per la zona in questione sono stati individuati dei parametri acustici. Ma la controversia qui non concerne l’attività amministrativa del Comune, anche perché, in quel caso, ci si dovrebbe rivolgere al TAR. Viceversa, il Tribunale ha ritenuto di essere competente, perché – si legge nel provvedimento – i cittadini hanno inteso svolgere una domanda finalizzata a chiedere il risarcimento dei danni o comunque la condanna del Comune ad adottare provvedimenti per eliminare le conseguenze dannose. Non si discute, quindi, delle scelte assunte dalla Pubblica Amministrazione, ma ci si limita ad esaminare eventuali profili di responsabilità rispetto ad una situazione lamentata dai cittadini. Da qui, secondo il Tribunale, deriva che se ne deve occupare il Giudice ordinario.

Per quanto riguarda la natura della domanda presentata, i cittadini hanno individuato nel Comune il soggetto responsabile della situazione di invivibilità del loro quartiere. A loro avviso, l’ente sarebbe responsabile per aver adottato una politica urbanistica sbagliata e per non aver assunto provvedimenti adeguati ad assicurare ai residenti una tutela contro la movida. Si invoca quindi il diritto alla salute, protetto dalla Costituzione, assieme alla norma del codice civile (art. 844) che impone di contenere le immissioni entro la soglia di normale tollerabilità.

Il nesso causale tra (in)attività del Comune e rumori

Fatte queste premesse, il Giudice ha ricevuto le risultanze della consulenza tecnica disposta, la quale ha accertato che effettivamente la zona in questione è caratterizzata da inquinamento acustico dovuto a schiamazzi, urla e altri suoni ricollegabili alla vita notturna. Le rilevazioni acustiche hanno fatto segnare, in particolare, valori simili a quelli di un’area industriale. Il limite fissato dal piano urbanistico è stato pertanto sforato.

Questi rumori, però, non possono essere addebitati direttamente al Comune, ma sono il frutto di un comportamento individuale, quello cioè tenuto dagli avventori dei locali in zona. Non ha senso, quindi, richiamare la norma civilistica che sanziona le immissioni, perché queste provengono dai singoli, non dall’Ente. Ha però senso esaminare il tutto sotto la lente dell’art. 2043 codice civile, norma che punisce genericamente gli atti illeciti. Questo articolo detta una regola che risponde a logica: se un danno è attribuibile al comportamento di qualcuno, costui lo deve risarcire. Il nodo fondamentale per ravvisare la responsabilità è quello del nesso causale: in tanto un soggetto può essere tenuto a risarcire un danno, in quanto lo abbia effettivamente causato.

La domanda, quindi, è se il Comune ha causato la situazione di degrado. Ci si chiede, nello specifico, se l’Ente ha davvero fatto tutto il possibile per fare in modo che i rumori della zona rientrassero nei parametri fissati dalla pianificazione urbana. E la risposta che dà il Tribunale è negativa. Secondo il Giudice, infatti, il Comune negli anni si è interessato al problema, ma si è limitato ad adottare dei provvedimenti che hanno al massimo tamponato temporaneamente ovvero ridotto in piccola misura l’inquinamento acustico e ambientale arrecato dagli avventori. Da queste constatazioni, il Tribunale rileva che esiste un nesso causale tra il comportamento del Comune e il danno lamentato dai residenti.

Il risarcimento del danno

Appurato che il Comune deve essere considerato responsabile per la situazione del quartiere, il Tribunale non ritiene di essere in grado di poter ordinare all’Ente quali provvedimenti adottare. Non solo, infatti, ci si andrebbe ad ingerire nelle scelte rimesse alla discrezionalità dell’amministrazione pubblica, ma si tratterebbe in ogni caso di adottare provvedimenti rientranti in una prospettiva più ampia, dovendosi decidere gli assetti di un intero territorio, con effetti su tutta la città.

Quello che, invece, il Tribunale può fare è esprimersi in merito alla richiesta di risarcimento del danno. Danno che viene ravvisato per il semplice fatto che si è accertato il superamento della soglia acustica definita dal piano comunale. Questo è sufficiente, ad avviso del Giudice, per ritenere che le persone interessate abbiano sofferto di difficoltà nella vita di ogni giorno: non poter dormire, non poter svolgere naturali occupazioni quotidiane, trovare la porta di casa invasa da rifiuti e deiezioni… sono tutte situazioni ritenute meritevoli di essere risarcite. Non è necessario ricorrere ad una perizia medico-legale, accertare una malattia e individuare così dei punti percentuali di invalidità. Secondo il Tribunale, che richiama in questo senso un principio dettato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, “il danno non patrimoniale conseguente a immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e al diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini quotidiane”.

Si arriva così al conteggio finale. Adottando un parametro equitativo, il Tribunale di Torino ha condannato il Comune a risarcire a ciascun residente la somma di 500 euro al mese. Questo risarcimento viene fatto partire dai primi rilievi effettuati dall’Arpa, datati 2013. Il risarcimento per ciascuno dei residenti, quindi, lievita a ben 42.000 euro.

(avv. Andrea Martinis)