La sentenza n. 22049 del 23 luglio 2020 offre alla Corte di cassazione la possibilità di ribadire alcune posizioni che, ormai, si può dire rappresentino un punto fermo nell’ambito della responsabilità penale legata all’utilizzo di Internet. Nel caso esaminato, una persona aveva creato falsi profili su un social network (Facebook), utilizzando un’immagine di una persona inconsapevole (che rappresentava il “bersaglio”) e scrivendo post che la mettevano in cattiva luce. La creazione di account fake si presenta con una certa frequenza nella vita di ogni giorno: basti pensare ai falsi profili creati per carpire informazioni, per aggirare blocchi che operano su un account, oppure per diffondere insulti… il tutto, con la copertura dell’anonimato.

In queste ipotesi, il comportamento dell’utente integra più reati distinti tra loro. Questo in quanto, come appunto ricorda la citata sentenza, chi crea un profilo falso, riconducibile ad una persona specifica, commette il reato di sostituzione di persona (art. 494 c.p.), in quanto fa credere ad altri di essere chi, in realtà, non è. Questo reato, nella prassi, non resta però isolato, in quanto solitamente rappresenta il “ponte” attraverso cui si realizza la vera finalità perseguita dall’utente, che può essere, come in questo caso, quella di offendere l’onore e la reputazione della persona falsamente rappresentata. Si ha pertanto anche il reato di diffamazione (art. 595 c.p.), consistente nel diffondere un contenuto offensivo, comunicando con più persone; a tal proposito, la Cassazione ribadisce che postare contenuti offensivi sulla bacheca di Facebook è, appunto, una diffamazione (aggravata peraltro dall’uso di Internet), in quanto il contenuto postato è accessibile a tutti gli “amici” connessi a quell’account.

La vicenda esaminata dalla Cassazione dimostra infine che l’anonimato che si spera di ottenere creando un profilo fake non è uno “scudo” particolarmente solido: sono bastate infatti le informazioni legate all’indirizzo IP per rintracciare la persona che si nasconde dietro al nickname; quanto alla prova della diffamazione, lo screenshot di un post è stato ritenuto sufficiente per attribuire a quell’account il comportamento punito dalla norma.

(avv. Andrea Martinis)