La Corte di cassazione, con la sentenza n. 29469  del 23 dicembre 2020, si è occupata di una questione che da sempre impegna non solo i giuristi, ma anche l’opinione pubblica, ovvero il rifiuto delle trasfusioni di sangue, giustificato da convinzioni religiose. Come noto, i Testimoni di Geova sono contrari alle emotrasfusioni, per motivazioni inerenti al loro credo religioso; in questa vicenda, alla Corte di cassazione è stato fondamentalmente chiesto di esplorare i limiti di validità di questo rifiuto. In particolare, il caso era quello di una donna che aveva acconsentito ad un trattamento sanitario, ma, a suo dire, esprimendo la contrarietà alle trasfusioni; aggravatasi la situazione in seguito all’operazione, i sanitari avevano effettuato trasfusioni di emergenza, salvando la vita alla paziente. Che, ripresasi, ha citato in giudizio i sanitari, chiedendo il risarcimento del danno per aver subito la trasfusione.

È evidente che, per poter formulare un giudizio su questo caso, si rende necessario operare un bilanciamento degli interessi in ballo. Da un lato, abbiamo una persona, disposta ad anteporre le proprie convinzioni religiose anche alla sua integrità fisica; dall’altro, ci sono i sanitari, preoccupati di salvaguardare la vita del paziente, anche al fine di evitare addebiti di responsabilità professionale in caso di esito nefasto.

A muovere le ragioni della paziente ci sono alcuni principi scolpiti nella Costituzione. In primis, il diritto alla salute (art. 32), per cui nessuno può essere sottoposto ad un trattamento medico senza il suo consenso; c’è inoltre il diritto alla libertà religiosa (art. 8), per cui deve essere garantita la possibilità di esercitare le proprie convinzioni religiose. È indubbio, dice la Cassazione, che questi diritti debbano ricevere tutela, mentre, per contro, non vi sono dei diritti di segno opposto e di pari rango che possano contrastarli. Al rifiuto dell’emotrasfusione, infatti, si potrebbe contrapporre la posizione del medico, chiamato a tutelare la salute del paziente, ma è evidente che il diritto così invocato (art. 32 Costituzione) è lo stesso che fonda la richiesta del paziente stesso di non ricevere la trasfusione di sangue. Il bilanciamento, per tanto, porta a ritenere prevalenti le esigenze della paziente.

Stabilito così che l’Ordinamento deve riconoscere e garantire il rifiuto delle trasfusioni da parte del Testimone di Geova, si tratta comunque di valutare quali debbano essere le modalità operative. Emerge la normativa nazionale in materia di consenso informato (cristallizzata, da ultimo, nella legge 219 del 2017), secondo la quale il medico è tenuto a rispettare le indicazioni del paziente e viene liberato da responsabilità se il paziente rinuncia a ricevere un trattamento sanitario; lo stesso medico è esentato da obblighi professionali nel caso in cui il paziente richieda un trattamento contrario alle pratiche clinico-assistenziali o alla deontologia professionale. Il principio appare chiaro: il medico deve informare correttamente e compiutamente il paziente, in modo che questi possa esprimere una scelta consapevole e ponderata; fatta questa scelta, il medico la deve rispettare.

Chiaramente, a tutela del medico, è necessario che il dissenso del paziente venga espresso prima dell’intervento e in maniera chiara ed inequivocabile. In questo senso, non si può semplicisticamente ritenere che il consenso prestato ad un intervento chirurgico contempli necessariamente anche il consenso all’emotrasfusione. Diventa necessario, quindi, esaminare distintamente l’intervento, da un lato, e la trasfusione, dall’altro, ben potendo il paziente determinarsi in modo diverso per i due passaggi. Ecco allora che, nel caso esaminato, la Cassazione ha ritenuto che il Giudice di secondo grado, a cui la causa è stata rinviata, debba valutare se, nel caso specifico, la paziente avesse effettivamente rifiutato la trasfusione, pur avendo accettato l’intervento.

(avv. Andrea Martinis)