Si parla spesso di diffamazione online ed in particolare della incredibile velocità e diffusione che può avere la condivisione in Internet di contenuti offensivi; questa “potenza di fuoco” impone, per l’offeso, di adottare degli strumenti volti a proteggere onore e reputazione: si pone così il problema di ottenere, in sede giudiziale, provvedimenti volti a rimuovere il contenuto offensivo diffuso online.

All’atto pratico, si tratta di rivolgersi al Tribunale Civile e chiedere l’emissione di un provvedimento di urgenza, consistente nell’ordine di rimozione, rivolto alle società che forniscono il servizio di hosting di contenuti, come Facebook, Twitter, Instagram, Youtube eccetera. Facile a dirsi, questa attività comporta, per il legale che se incarica, la necessità di superare alcune questioni di non facile soluzione, che di seguito vengono individuate.

  1. giurisdizione. I servizi Internet vengono resi da società che tendenzialmente hanno una sede legale fuori dai confini italiani, il che pone la fatidica domanda: quale giudice se ne può occupare? Vertendosi in materia di diffamazione (e quindi, da un punto di vista civilistico, di responsabilità da fatto illecito), viene in rilievo il criterio della Convenzione di Bruxelles del 1968 (criterio poi ripreso nei provvedimenti comunitari successivi): si guarda, quindi, al “luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto”. Il collegamento, pertanto, può essere individuato dal fatto generatore dell’illecito, ovvero dal luogo in cui si è prodotta la lesione”. Se l’offeso risiede in Italia e ivi ha il centro abituale delle sue attività, non ci sono dubbi che il giudice italiano è competente a decidere.
  2. responsabilità. Ospitare contenuti Internet è l’attività dell’hosting, a cui la normativa comunitaria ha rivolto delle regole che ormai la giurisprudenza interpreta in modo pacifico. Si distingue tra hosting attivo (che ha la possibilità di intervenire sui contenuti caricati) e passivo (che invece riceve e pubblica, senza controllare), per sostenere che, in caso di caricamento di contenuti illeciti, per poter ritenere responsabile il secondo serve dimostrare che sia a conoscenza dell’illecito, che possa ragionevolmente constatare il carattere illecito dei contenuti e che si possa attivare a tutela di tali contenuti. La prima condizione è soddisfatta solo nel caso in cui all’hosting sia stata chiesta la rimozione prima di notificare il ricorso dinanzi al Tribunale; in altre parole: se, prima di avviare la causa in tribunale, all’hosting non è stata chiesta la rimozione, anche se il giudice dovesse accogliere la domanda presentata dall’offeso, difficilmente questo potrà chiedere la condanna dell’hosting a rifondere le spese legali, visto che, prima di quel momento, l’hosting nulla poteva sapere della vicenda!
  3. carattere offensivo dei contenuti. Per ordinare la rimozione di un contenuto pubblicato online, occorre dimostrare che questo sia offensivo. Viene in rilievo la necessità di equilibrare il diritto di cronaca/critica/espressione del pensiero, da un lato, e quello all’onore/reputazione dall’altro. La giurisprudenza, a tal fine, ha elaborato una serie di criteri per valutare se i toni – astrattamente offensivi – possono giustificarsi in nome della libertà di manifestazione del pensiero. Questi criteri sono: verità (corrispondenza tra fatti avvenuti e quelli riportati), continenza (non ci sono offese gratuite) e pertinenza (sussiste un interesse alla diffusione del contenuto).
  4. estensione dell’ordine. Posto che Internet è diffusa a livello mondiale, fino a che punto può arrivare un ordine di rimozione? Potenzialmente, ciascun giudice potrebbe ordinare un “reset” globale dei contenuti offensivi (e non sono mancati i casi in cui è stato disposto in questo senso), ma c’è da dire che questo potere va commisurato con le esigenze effettive di tutela, che sono sottese alla domanda giudiziale: l’offeso, semplicemente, ha interesse che la rimozione riguardi l’area di sua pertinenza, quella cioè in cui egli vive/opera/è conosciuto. D’altro canto, c’è da dire che un contenuto, che un ordinamento giuridico ritiene offensivo, potrebbe non esserlo in un ordinamento giuridico diverso. Per questo, si parla di una “autolimitazione” da parte del giudice, che potrà quindi valutare se corrisponde realmente alle esigenze dell’offeso che la rimozione sia globale, anziché limitata allo spazio europeo. Optando per questa seconda ipotesi, è evidente che non potranno essere destinatarie di alcun provvedimento quelle società che forniscono servizi Internet per persone residenti fuori dagli spazi europei. Prendiamo l’esempio di Facebook: mentre Facebook Inc. gestisce i contenuti dei soggetti extra-UE, è solo Facebook Ireland che si rivolge ai cittadini dello spazio comunitario. Questo aspetto è importante anche in sede di costruzione del ricorso, perché, nel caso in cui non venga chiesta una rimozione globale, coinvolgere nel contenzioso soggetti che non gestiscono servizi per cittadini comunitari potrebbe comportare un rigetto della domanda loro rivolta, con condanna alle spese per il ricorrente.

(avv. Andrea Martinis)