Tutti sappiamo che “a nostra insaputa” potrebbe venirci intestato un appartamento con vista sul Colosseo. O, perlomeno, potrebbe venirci ristrutturato un attico. Ma le sorprese non sono sempre gradite e questa volta ad andarci di mezzo è una malcapitata che “a sua insaputa” viene iscritta a un sito di incontri. Il gentile pensiero lo ha l’ex-fidanzato che, utilizzando i dati personali della donna, apre un falso profilo sul social network “ciaoamigos” e la iscrive a una chat-room dal nome inequivocabile: “sesso”. Si apre così un procedimento penale per il reato di trattamento illecito di dati personali.

La vicenda giudiziaria: di chi è la colpa?

Le indagini collegano l’attività di apertura del profilo alla SIM del telefonino dell’ex-fidanzato, che viene così giudicato colpevole e condannato. Ma lui prova a difendersi e sottopone il suo caso alla Corte di Cassazione. Secondo la difesa dell’uomo, è pur vero che la Polizia Postale ha collegato l’apertura del profilo alla sua SIM, ma tutti gli accessi successivi sarebbero avvenuti da altri dispositivi. Tenuto conto che l’imputato viveva in caserma, è ben probabile, egli sostiene, che siano stati i suoi commilitoni a compiere ogni attività utilizzando la sua connessione. I giudici gli avevano chiesto chi fossero i suoi commilitoni con l’accesso alla sua linea dati, ma lui non aveva risposto e ora si lamenta che tale richiesta era illegittima.

Connessione usando l’IP altrui?

La Corte di Cassazione sottolinea l’assoluta irragionevolezza e inverosimiglianza della ricostruzione proposta dall’imputato. Secondo questi, i suoi commilitoni si sarebbero connessi alla rete usando l’IP del suo telefono per creare un profilo usando i dati della sua ex. È vero che se sussiste un ragionevole dubbio sulla tua colpevolezza non puoi essere condannato, ma il dubbio deve essere “ragionevole”. Cioè, non basta un’ipotesi astratta, non è sufficiente indicare un fatto che potrebbe essere accaduto. Il ragionevole dubbio deve riposare su ricostruzioni plausibili, che siano ancorate alle risultanze processuali.

Il dubbio, per essere ragionevole, deve rispondere a criteri di razionalità e deve basarsi su elementi verificabili con le prove assunte nel processo. Nel nostro caso, poiché l’imputato non aveva indicato chi potesse essere a conoscenza dell’account da lui creato, al punto da potervi accedere ed inserire i dati della persona offesa, è mancata in sua difesa un’ipotesi idonea a mettere in dubbio le chiarissime risultanze della Polizia Postale. In conclusione, impugnazione respinta e condanna confermata, con l’aggiunta di una sanzione di 2.000,00 euro per aver fatto un’impugnazione inammissibile. (Cassazione Penale n. 42565 /2019)