Installare telecamere che riprendono i dipendenti può rappresentare un reato, di cui risponde ovviamente il datore di lavoro. Si tratta di una disposizione che, per quanto presente nel nostro ordinamento da parecchio tempo (è contenuta nell’art. 4 dello Statuto del lavoratori), ancora oggi viene spesso ignorata. Sintetizzando, la norma esige infatti che l’installazione di un impianto di videosorveglianza sia preceduta dall’autorizzazione resa dall’Ispettorato del Lavoro (o comunque con il via libera sindacale). Eppure, come nel caso deciso dalla Corte di cassazione (sentenza n. 46188 del 2023), c’è ancora chi si dimentica di questa regola.

Il protagonista è il titolare di un bar, che decide di installare alcune telecamere nel locale e lo fa senza passare attraverso l’Ispettorato del Lavoro. Un controllo dell’autorità pubblica sul posto, però, consente di scoprire l’impianto e, mancando l’autorizzazione prevista dalla legge, scatta il procedimento penale. Il Tribunale condanna il titolare del bar, rilevando che l’installazione dell’impianto avrebbe dovuto ricevere la preventiva autorizzazione. Le telecamere sul posto di lavoro, secondo questa interpretazione, configurano un ipotesi di reato.

Due requisiti per un reato: la presenza dei dipendenti e il potenziale controllo

La Cassazione, a cui l’imputato si è rivolto dopo la sentenza di primo grado, rileva però l’eccesso di superficialità nella decisione del Tribunale. Richiama, in particolare, alcuni aspetti fondamentali per la corretta interpretazione della norma. Che, osservano i Giudici, è volta a proteggere i dipendenti: la presenza di lavoratori nel luogo ripreso dagli impianti di videosorveglianza è requisito imprescindibile per la configurabilità del reato in contestazione. Se manca la prova che ci sono dei dipendenti, quindi, non è possibile pensare che ci sia un reato.

Non solo. Lo scopo della norma penale è quello di evitare che il datore di lavoro controlli in modo occulto i propri dipendenti. Questo significa che, per poter ritenere configurato il reato, è necessario accertare che l’impianto di videosorveglianza dia al datore questo potere. Se le telecamere sono funzionali all’organizzazione aziendale (ad esempio, per la tutela del patrimonio) e la loro presenza non implica un potenziale controllo, ecco che i presupposti del reato vengono meno.

Se mancano i requisiti, non c’è il reato. Ma se ci sono, l’attenzione deve essere massima!

Questi due aspetti sono fondamentali per esaminare i casi di installazione di un impianto di videosorveglianza in un luogo di lavoro. Servono a valutare, in poche parole, se posizionare telecamere sul posto di lavoro è un reato oppure no. Eppure, nel caso deciso dal Tribunale, non hanno ricevuto la sufficiente attenzione. Non è chiaro, da un lato, se ci fossero dei dipendenti, né, dall’altro, se questi fossero potenzialmente controllabili. Per tale ragione, la Cassazione ha annullato la sentenza di primo grado, rinviando ad un nuovo giudice per un esame più approfondito.

La Suprema Corte ha svolto una valutazione a fini penalistici, rimarcando la superficialità dell’analisi condotta nel provvedimento impugnato. I rilievi, però, hanno una loro utilità in senso diametralmente opposto, come “spie”, per così dire, della necessità di alzare la soglia di attenzione. Quando, in particolare, il datore di lavoro ritiene di dover installare un impianto di videosorveglianza, dovrà valutare attentamente i due aspetti sopra indicati. Se, cioè, ci sono dei dipendenti potenzialmente coinvolti nelle riprese e se tali riprese possano rappresentare uno strumento di controllo dell’attività lavorativa. Laddove la risposta sia positiva, dovrà porsi la massima attenzione alle scelte perché, oltre al rispetto della normativa privacy, si dovrà tener conto anche delle disposizioni penali.