Booking.com è una piattaforma che offre un servizio di intermediazione tra consumatori e albergatori ed in particolare agevola la conclusione di contratti per la prenotazione di soggiorni. Tale prenotazione, in alcuni casi, può essere cancellata liberamente, senza cioè che all’utente siano addebitate somme di denaro, mentre, in altre ipotesi, la prenotazione non è rimborsabile: questo significa che se l’utente, all’atto della prenotazione, paga immediatamente il costo del soggiorno, la somma non gli viene restituita. E se l’utente volesse richiedere la restituzione? Ne ha diritto?

Per rispondere a questa domanda, un primo approccio potrebbe essere quello di ritenere che la clausola che non prevede il rimborso della prenotazione sia vessatoria: così ragionando, viene in rilievo il codice del consumo, che “salva” la clausola a patto che l’albergatore dimostri che quella clausola è stata oggetto di una “trattativa”, ovvero che il consumatore, nel momento in cui la ha accettata, fosse consapevole della sua portata. Ovviamente questa prova non è possibile nel caso di Booking.com, perché non c’è un canale di comunicazione tra utente e albergatore: per avere una “trattativa” tra le parti, infatti, bisognerebbe creare uno scambio (ad esempio, una chat) tra i due, alterando così il funzionamento della piattaforma e pregiudicando la sua immediatezza e facilità d’uso.

Più in generale, l’art. 1341 c.c. prevede che le clausole vessatorie possano essere applicate solo ove sottoscritte espressamente: è il cosiddetto principio della “doppia sottoscrizione”, che si trova applicato in molti moduli contrattuali, ove viene richiesta una doppia firma, appunto, per approvare espressamente alcune clausole. Inutile dire che questo modo di ragionare risulta difficilmente compatibile con l’ambiente online, in cui la stipula di un contratto e l’adesione a certe clausole è ottenuta attraverso un clic o una “spunta” ad alcune caselle: nessuna sottoscrizione, quindi, è dimostrabile.

Partendo da questi presupposti, non sono mancate delle decisioni che hanno ritenuto vessatoria la clausola della “prenotazione non rimborsabile” e, mancando la prova della “trattativa” o della “doppia sottoscrizione”, prova praticamente impossibile da fornire in questo caso, hanno imposto all’albergatore la restituzione della somma versata anticipatamente dal’utente. Ci si deve chiedere, però, se queste decisioni siano corrette o se, invece, su di esse non abbia influito l’aver dato un eccessivo rilievo al fatto che il contratto si fosse concluso online.

Perché, alla fine, quello che si perfeziona su Booking.com resta pur sempre un contratto di albergo, il quale, secondo l’interpretazione comune, si conclude quando, con la prenotazione, l’utente aderisce all’offerta dell’albergatore. La revoca della prenotazione, quindi, è una scelta unilaterale dell’utente e, per giurisprudenza consolidata, lo obbliga a compensare l’albergatore per la perdita subita. Seguendo questa logica, la somma che viene versata all’atto della prenotazione è semplicemente il prezzo del soggiorno e risulta inesatto parlare quindi di penale: c’è un pagamento anticipato, l’albergatore lo incassa e, se il cliente rinuncia al servizio, deve sopportare l’obbligo di indennizzare l’albergatore per la perdita derivante dalla prenotazione sfumata.

Altro discorso, ovviamente, è andare a discutere sulla misura di questa perdita, perché si potrebbe obiettare che l’albergatore potrebbe assegnare ad altri la camera; ma questo, appunto, è un aspetto che non c’entra con il focus del ragionamento qui proposto. Restando al tema principale, ovvero quello della cancellazione non gratuita, si può concludere che il modo in cui funziona Booking.com  quando non si prevede il rimborso della cancellazione non è poi così diverso da quello che può succedere al di fuori dell’ambiente Internet: alla fine, c’è semplicemente un prelievo anticipato del costo del servizio. Queste valutazioni sono utili per capire che, dando eccessivo peso al fatto che un contratto sia stato concluso online anziché in uno spazio fisico, si rischia per giungere a conclusioni giuridiche diverse, pur non essendocene ragione.

(avv. Andrea Martinis)